TUCIDIDE,

viene definito da Cicerone "storico degno di fede" (Bruto, 47).
Non è uno storico siciliano, ma attira la nostra attenzione in quanto autore di una storia della guerra del Peloponneso, nella quale - come Polibio - egli affronta gli avvenimenti storici escludendo ogni riferimento a volontà divine, coadiuvanti delle gesta umane. Per questa sua modernità, e per l'aiuto che fornisce a coloro che si interessano anche alla storia della Sicilia è ovvio per noi tracciarne un breve profilo.
Tucidide, nato nel 460 a.C. ad Atene e morto nel 395 a.C. circa, originato da nobile famiglia - imparentata con Milziade, vedi Pindaro - dedicò costantemente ogni sua energia intellettuale, per tutto il suo tempo mortale, alla stesura della sua opera. In giovane età ebbe l'incarico militare di difendere la città di Anfipoli e la Calcidica: sconfitto da Brasida, venne accusato di tradimento, e costretto all'esilio in Tracia. Iniziò così ad ordinare i dati per la sua opera: con la sua elaborazione storiografica offre un esempio di storico dal temperamento risoluto, e consapevole della importanza della sua funzione culturale.
Viene considerato superiore a Polibio per l'aver evitato ogni moraleggiare intorno agli avvenimenti narrati ed analizzati con discreta concisione. La sua opera consta di otto libri, ma quelli cui puntiamo il nostro interesse sono il VI ed il VII tomo, dedicati alla spedizione ateniese in Sicilia, fino al 413 a.C. In quell'anno, la guerra iniziata tra Atene e Sparta nel 431, si trascina fino in Sicilia. Nell'estate del 413 la flotta ateniese, nel porto Grande di Siracusa, viene distrutta. Anche sulla terraferma, nei pressi del fiume Assinaro, gli ateniesi condotti da Nicia e Demostene vengono sconfitti da truppe siceliote comandate dallo spartano Gilippo.
Altri eventi porteranno alla resa di Atene nel 404; ma ciò che per la nostra storia della letteratura più conta è il prestigio che la già forte Siracusa da tali avvenimenti ricava. Prestigio guadagnato anche in seguito, con le vittorie ottenute a spese dei Cartaginesi nel 397 e nel 383, quando era tiranno della città Gelone. Nuove colonie nacquero con gli spostamenti delle navi e dei sicelioti siracusani: a Porto Vecchio (Corsica), ad Ancona e ad Adria. I successivi progressi in campo economico e sociale porteranno Siracusa ad avere una corte che attirerà per ricchezza ed ospitalità molti degli ingegni di cui stiamo trattando.

Ciò che Eraclito, colla sua visione di un mondo in continuo cambiamento, è per la filosofia, così Tucidide appare agli occhi degli storici suoi successori. La storia si rinnova in eterno, per lui, ed il tutto muta riguarda bene anche il costituirsi ed il dissolversi degli imperi: concezione che pare piuttosto ovvia a chiunque non sia portato alla ricerca di un potere. Oltre che da Polibio, Tucidide si differenzia anche da un altro grande storico dell'antichità: Erodoto. Questi, tra gli avvenimenti che ritiene degni di nota, cita anche quelli ai quali non può accedere per una verifica: come i fatti riportati dalla tradizione. Tucidide è moderno invece anche nel vagliare la attendibilità delle fonti, con razionale attenzione.
Gran merito suo è, inoltre, quello di aver saputo dividere gli avvenimenti della guerra del Peloponneso in guerra archidamica e guerra deceleica, intervallate dalla pace conclusa dal generale Nicia nel 421 a.C. (valoroso che morì nella sopra ricordata sconfitta ateniese in Sicilia). Tucidide si arrischiò anche a prendere una posizione nei confronti di quegli avvenimenti che a volte accadono contravvenendo alle umane aspettative razionali, quando accade che un esercito debole riesca a vincere una battaglia contro quello più dotato: per Tucidide se a volte il forte perde, rimane solo danneggiato, mentre lo stesso non è per il debole, che viene annientato. E ancora, Tucidide crede fermamente che è la legge del più forte che domina i destini delle nazioni; e ciò a dispetto della giustizia:
"Non stabilimmo noi ( gli ateniesi nda) tale legge (del più forte nda) e neppure ci distinguiamo nel volerla applicare: c'era e ci sarà, in quanto è voluto dalla natura che gli uomini più forti esercitino il potere".
Traspare costante un tono di ammirazione per la propria gente, che in passato aveva saputo fronteggiare pericoli immani, in solitudine, contro i Persiani:
"Ad Atene noi rettamente riflettiamo e apertamente giudichiamo sugli affari privati e pubblici, convinti che i discorsi non nuocciono all' operare, ma ad esso nuoce piuttosto il passare ai fatti, prima di aver chiarite nei discorsi le idee. Poiché noi abbiamo questo pregio singolare, di essere insieme al sommo ardimentosi e riflessivi in tutto quanto intraprendiamo; diversi perciò dagli altri nei quali l'ignoranza genera audacia e la ponderazione lentezza".
E non mancano i giudizi sulle condotte dei governi; viene elogiata la virtù politica, guidata dalla magnanimità dei potenti di turno; con la consapevolezza che ogni guerra, ogni insanguinato traguardo, prima o poi svanirà col trascorrere dei secoli, se non dei decenni o dei lustri. Ecco perchè è importante l'onore e la gloria che da esso ne consegue, in pace come in guerra, a lasciare traccia veramente duratura dopo fatiche, e lutti, e tragedie immani.
"Amiamo il bello, noi, ma sempre con semplicità; ed amiamo la conoscenza, ma senza oziare. Le nostre ricchezze ci servono più per essere maggiormente attivi che per mostrarci vanitosi; e la povertà da noi confessata non ci rende vergognosi, ma più risoluti nel lavoro". Infine riviviamo una delle più antiche pagine di storia che riguardano i nostri padri; si tratta di un brano tratto dal VII libro di Tucidide, nella traduzione di C. Coppola (Le più belle pagine della lett. greca classica, Nuova Accademia Editrice, 1962); siamo negli anni 414, 413 a.C.:
"Durante la notte, Nicia e Demostene, tenuto conto delle condizioni pietose in cui si trovavano le truppe per la mancanza di vettovaglie e per il gran numero dei feriti a seguito dei ripetuti attacchi nemici, decisero di accendere fuochi quanti più fosse possibile e di battere in ritirata con l'esercito, non per la via che avevano deciso precedentemente, ma in senso contrario a quello dove c'era il blocco dei Siracusani, cioè verso il mare. La direzione generale di questa strada non portava le truppe a Catania, ma dalla parte opposta della Sicilia, verso Camarina e Gela e altre città, greche e barbare (i Greci per barbari intendevano tutti coloro che non appartenevano ad uno dei gruppi ellenici; nda). Accesi dunque molti fuochi, marciavano di notte. Ed ecco che fra le truppe si diffuse un grande panico, come suole accadere in genere agli eserciti, specialmente se numerosi, quando marciano di notte in terra ostile e col nemico alle costole. Le truppe di Nicia, in testa alla colonna, restavano salde e perciò si avvantaggiarono di molto, mentre quelle di Demostene, che costituivano il grosso, più della metà dell'esercito, s'erano sparpagliate e avanzavano in disordine. All'alba, tuttavia, giungono in vicinanza del mare, e imboccano la strada detta di Eloro, con l'intento di guadagnare il fiume Cacipari e quindi, lungo il fiume, di inoltrarsi nell'interno. La speranza era che qui venissero loro incontro i Siculi ai quali avevano fatto appello. Ma, giunti che furono al fiume, trovarono anche qui un presidio siracusano che stava chiudendo il guado con muri e palizzate. E tuttavia riuscirono a forza a passare il fiume e ripresero la marcia verso un altro fiume, l'Erineo. Questa era la direzione consigliata dalle guide.
Intanto i Siracusani e gli alleati, appena sul far del giorno si accorsero della scomparsa degli Ateniesi, accusarono in gran parte Gilippo di averli volontariamente lasciati partire. Datisi quindi ad un rapido inseguimento per la via che senza difficoltà capirono esser quella presa dagli Ateniesi, li raggiunsero all'ora del rancio e attaccarono subito le truppe della retroguardia di Demostene, che avanzavano in gran lentezza e disordine, per il panico della notte precedente. Piombarono subito loro addosso e attaccarono, mentre la cavalleria li circondava con facilità, isolati com'erano dal grosso, riuscendoli a concentrare in un sol punto. Le truppe di Nicia si trovavano avanti, a cinquanta stadi, perché egli avanzava più rapidamente, convinto com'era che la salvezza era riposta non nell' attendere deliberatamente il nemico e attaccar battaglia, ma nel ritirarsi con la maggior celerità possibile e combattere solo se costretti. (...). Mentre queste truppe (prigioniere, di Demostene; nda) vengono subito dirette verso la città, Nicia e i suoi, nello stesso giorno giungono al fiume Erineo, lo varcano e pongono gli accampamenti in una posizione elevata.
I Siracusani li raggiunsero il giorno dopo, gli fecero sapere che Demostene si era arreso coi suoi e l'invitarono a fare lo stesso. Non lo credette Nicia e ottenne una tregua per mandare un cavaliere ad accertarsi di quanto gli era stato riferito. Tornato che fu, il cavaliere confermò la resa, e quindi Nicia mandò araldi a Gilippo (comandate degli alleati spartani; nda) e ai Siracusani annunziando di esser pronto a concludere un accordo a nome degli Ateniesi, nei seguenti termini: risarcimento delle spese di guerra sostenute dai Siracusani e liberazione del suo esercito: fin quando non venisse consegnato il denaro, proponeva di dare in ostaggio cittadini ateniesi, uno per talento. I Siracusani e Gilippo non accettarono queste condizioni, ma, piombati addosso agli Ateniesi e accerchiatili da ogni parte, li tennero sotto il loro tiro fino a tarda ora. Anche queste truppe di Nicia si trovavano a corto di vettovaglie e mancavano del necessario. E tuttavia, spiato di notte un momento di calma, si accingevano a muoversi, quando i Siracusani, accortisi che riprendevano le armi, intonarono il peana (canto di guerra; nda). Visto che non erano passati inosservati, gli Ateniesi deposero di nuovo le armi, tranne circa trecento uomini che riuscirono a forzare i posti di guardia nemici e si avviarono dove poterono.
Sul far del giorno, Nicia riprese la marcia, mentre i Siracusani e gli alleati li premevano allo stesso modo da ogni parte, sempre con tiri di frecce e giavellotti. Gli Ateniesi cercavano di raggiungere a marce forzate il fiume Asinaro, sempre premuti dagli attacchi dei cavalieri, che sbucavano da ogni parte, e dal resto dell'esercito nemico: pensavano che, passato il fiume, avrebbero migliorato la loro situazione, stanchi com' erano e assetati. Giunti che furono al fiume, vi si buttarono dentro disordinatamente: ognuno cercava per conto suo di passare per primo, mentre i nemici, sempre presenti, rendevano ormai difficile la traversata. Costretti ad avanzare in massa cadevano gli uni sugli altri e si calpestavano a vicenda. Alcuni infilzandosi nei propri giavellotti o nelle altre armi, o perivano subito o, impacciati com'erano, venivano trascinati giù dalla corrente. I Siracusani, appostati sulla riva opposta che era scoscesa, colpivano dall' alto gli Ateniesi, mentre in gran parte erano intenti a bere avidamente e si ostacolavano a vicenda, chiusi com'erano nel letto incassato del fiume"(...).
Tanto sangue, infine, per lavarci gli occhi dalle illusioni di ere felici vissute tra amori e bevute, canti e spettacoli teatrali. Dei tanti uomini spazzati via, umile è rimasto invece il lavoro, la roccia scolpita dalle loro dissolte mani, forgiando teatri e templi; che nei loro incavi ancora mostrano l'ombra delle dita umanissime.